Il processo di elaborazione del lutto è un fenomeno psicologico complesso che richiede tempo e risorse cognitive significative. Quando affrontiamo una perdita, il nostro cervello attua una strategia di adattamento: da un lato, preserva la funzionalità quotidiana, permettendoci di adempiere ai compiti essenziali; dall’altro, crea uno spazio mentale dove custodisce i ricordi e le emozioni dolorose legate al lutto. Possiamo immaginare questo spazio come un “cassetto” mentale che contiene gli elementi più dolorosi dell’esperienza luttuosa. L’apertura di questo cassetto è spesso innescata da stimoli ambientali specifici – triggers – che possono includere elementi sensoriali come profumi, immagini o date significative.
In condizioni ottimali, il cervello elabora gradualmente il contenuto di questo cassetto, integrando le memorie e le emozioni associate al lutto nel più ampio contesto dell'esperienza personale.
La situazione che stiamo vivendo in questo momento sta mettendo a dura prova il nostro equilibrio psicologico.
La ricerca ha evidenziato che vivere costantemente in una situazione di pericolo, di perdita di familiari e l’essere esposti a scene spaventose, costituisce un fattore di rischio grave per la salute mentale di adulti e bambini.
La paura, emozione primaria, ha la funzione positiva di segnalare uno stato di emergenza ed allarme, preparando la mente ed il corpo alla reazione. Una limitata dose di paura è necessaria, anzi fondamentale per potersi attivare in una direzione buona di protezione ed allerta ai fini della sopravvivenza dell’individuo e della specie.
Per spiegare come funziona una psicoterapia c’è bisogno di fare un piccolo passo indietro e spiegare due dei principi base dell’Analisi Transazionale, il modello a cui faccio riferimento.
Il primo si chiama “Okness”: psicoterapeuta e paziente, seppur con responsabilità e compiti diversi, si rapportano su un piano di parità. Non si parte dal presupposto che lo psicoterapeuta ne sappia di più, né che possa magicamente curare i problemi altrui, ma dal principio secondo cui il terapeuta ha i suoi strumenti e la responsabilità del benessere del paziente e che quest’ultimo abbia pari responsabilità nel proprio percorso, conoscendo sé stesso meglio di chiunque altro, terapeuta compreso.
L’Okness è quindi il principio guida nell’accogliere l’essenza di ogni persona come essere umano, affermando che tutte le persone hanno la capacità di pensare e di prendere decisioni su di sé.
Il secondo è la “contrattualità”: psicoterapeuta e paziente definiscono insieme un obiettivo condiviso. Questo principio è essenziale tanto quanto il primo, poiché se terapeuta e paziente sanno dove quest’ultimo desidera arrivare, allora sarà possibile monitorare il cambiamento nel tempo, salutarsi quando si è raggiunto l’obiettivo, domandarsi cosa c’è che non sta funzionando quando invece sembra difficile raggiungerlo. Inoltre, se io terapeuta conosco l’obiettivo, non conduco il paziente in una direzione che non desidera per sé, rispettando il principio di Okness.
Detto questo, la psicoterapia è un percorso che impegna attivamente entrambe le parti nel riconoscere i blocchi e le problematiche, nel diventare consapevoli del modo in cui si “funziona” e nel decidere di cambiare.
Spesso guardare il passato è un passaggio importante per diventare consapevoli e motivarsi al cambiamento, le prime esperienze sono particolarmente significative per dare un senso ai problemi di oggi. Il modo di pensare e sentire di un bambino è diverso da quello di un adulto, prima di tutto perché il suo è un cervello geneticamente predisposto per la sopravvivenza e per l’apprendimento. Ciò che impariamo su di noi e sul mondo nei primi anni di vita ha un impatto fondamentale su chi saremo da grandi. E spesso, durante un percorso di psicoterapia, si scopre che quel bimbo di allora ha preso la miglior decisione possibile nel contesto in cui si trovava, ma che quella decisione oggi non è più funzionale. Ad esempio una persona che ha difficoltà a dire di no può aver “deciso” da piccolo che dire sempre di sì era essenziale per non far infuriare un genitore violento. Oggi è chiaramente un problema, perché magari la persona dice di sì in automatico, senza pensare, ma allora per sopravvivere era una buona decisione. E questa consapevolezza diventa un passo importante in direzione del cambiamento.
Nella psicoterapia lo sguardo al passato è essenziale tanto quanto lo sguardo al presente, il paziente ha spesso bisogno di strumenti efficaci per gestire un sintomo invalidante, quindi si usano una serie di tecniche per agire nel qui e ora.
La psicoterapia si conclude quando l’obiettivo definito all’inizio è stato raggiunto, non ci sono tempi prestabiliti, poiché la buona riuscita di una terapia dipende da come terapeuta e paziente lavorano insieme.
Ci si incontra una volta a settimana possibilmente sempre nello stesso giorno ed orario. Questa piccola regola crea lo “spazio per sé” necessario per il cambiamento, senza il quale non sarebbe possibile lavorare insieme. A volte per il paziente questo è già un passo importante perché magari non si è mai concesso un tempo per sé e fa fatica a ritagliarselo.
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Qui puoi trovare risposta ad alcune domande che mi vengono poste frequentemente.
Non c’è un tempo preciso, la terapia, nel migliore dei casi, finisce quando si è raggiunto l’obiettivo di cambiamento che il paziente desidera raggiungere. Il tempo dipende da come lavorano terapeuta e paziente insieme e non è possibile fare previsioni su questo. Ci sono coppie terapeuta-paziente che lavorano in modo spedito e la terapia si conclude in tempi brevi, ci sono coppie che invece hanno bisogno di più tempo. Anche l’obiettivo di cambiamento ha un impatto sulla durata della terapia, se il paziente desidera gestire l’ansia ed acquisire strumenti concreti il percorso sarà più breve rispetto ad un paziente che invece ha relazioni instabili e vorrebbe avere una relazione duratura (le relazioni hanno a che fare con il sistema dell’attaccamento e questo implica un lavoro con il passato). Quello che mi sento di dire al riguardo è che se l’obiettivo di cambiamento non si raggiunge e la terapia si allunga e dura diversi anni, c’è qualcosa che non sta funzionando e forse occorre cambiare strada, interrompere la terapia e valutare altre opzioni. Il terapeuta ha la responsabilità del benessere del paziente e quindi ha l’obbligo etico di valutare insieme a lui quale possa essere la strada migliore.
Sì, esistono tantissimi modelli teorici e non è facile decidere. Quello che rispondo sempre quando qualcuno mi fa questa domanda è che la ricerca dice che una buona terapia non dipende da questo o quel modello, ma dalla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente. Se ci si sente a proprio agio, se c’è un buon livello di collaborazione, se si lavora bene insieme, allora la terapia ha delle buone probabilità di funzionare bene. Proprio per questo motivo invito la persona a valutare nei primi incontri se si è trovata bene con me, dandosi la libertà di decidere se proseguire oppure no.
Il sintomo è solo un segnale di allarme, ha sempre un significato e va accolto, ascoltato. Quindi no, non stai diventando matto, il solo fatto che tu ti stia ponendo questa domanda indica che tu non lo sia, i matti non sono consapevoli di esserlo.
Quello che consiglio di solito in queste occasioni è di parlarne con il terapeuta da cui si è seguiti in quel momento, di condividere i propri dubbi e perplessità. Parlarne può essere un’occasione preziosa per dipanare le incertezze e per includere nella terapia quel “pezzo di sé” che vorrebbe andarsene. Sta poi alla coppia terapeuta-paziente decidere sul da farsi, se proseguire il percorso o concludere. Quindi la risposta in genere per me è no, meglio proseguire con la “vecchia” terapia. Ovviamente occorre valutare caso per caso e la mia non è una risposta universale, quello che so di certo è che non sono disposta ad iniziare una terapia quando ce n’è una precedente in atto, occorre chiuderla e poi valutare insieme.
La risposta è senza dubbio no. Come dice John McNeel, un terapeuta americano che stimo molto, “se vuoi vivere sereno la tua vita fai prima a non essere mai nato”. Sembra un’affermazione dura o fa un po’ ridere, a seconda di come la si legga, ma quello su cui McNeel mette l’accento è che non è possibile vivere sereni, gli eventi che la vita ci mette di fronte sono molteplici, a volte meravigliosi, a volte sconvolgenti o duri. Occorre fare amicizia con questo. Come diceva Gandhi, “la vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a ballare sotto la pioggia” e allo stesso modo la terapia non può avere come obiettivo la serenità ma quello di imparare ad affrontare i momenti buoni così come quelli difficili e di accoglierli ed apprendere da essi.
Ti senti in difficoltà ed hai bisogno di aiuto?
Molto spesso si ha difficoltà a chiedere aiuto e ci si sente soli con i propri problemi.
Un primo passo può essere anche quello di fare delle domande che ci permettono di sentirci meno soli e possono darci la forza di iniziare il cambiamento.
Non avere timore, esponimi i tuoi problemi o i tuoi dubbi.
Potremo iniziare un percorso insieme.
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